Arte e indipendenza
Ieri ho trovato sulla pagina di uno psicoterapeuta questa citazione, che sento di condividere anche qui:
“La nostra dipendenza ci rende schiavi, specialmente se quella dipendenza è la nostra autostima, e se hai bisogno di incoraggiamento, lode e congratulazioni da parte di tutti, allora fai di tutti il tuo giudice. “
(F. Perls)
Sebbene sia da considerarsi in modo molto più ampio, la porto nel campo dell’arte.
Dipingere (o fare altro di artistico) con il principale scopo di ricevere approvazione e like conduce a due risultati (probabilmente più di due, anzi certamente ma a me interessano questi due):
- primo – da una parte si offre a un non ben identificato pubblico, specie con i like su un social, di dirigere, cassare o premiare la nostra ricerca artistica.
Non sto dicendo che un feedback esterno non sia desiderabile, anzi, ma deve servire per fare una triangolazione, per fare brainstorming, non per cedere ad altri interamente il potere decisionale.
Si perde la propria direzione autonoma, la propria indipendenza, si passa il tempo a rincorrere l’altro invece che trovare ciò che amiamo fare e scoprire che esiste l’altro che ama seguirci per quello che siamo (che quello che facciamo poi rispecchia quello che siamo se lo facciamo con autenticità), diventiamo quindi insoddisfatti pennelli nelle mani di una direzione esterna, che ci può condurre anche molto lontano dalla nostra essenza, tanto da portarci anche a non avere più voglia di farlo. - secondo – siamo emotivamente alla mercè dell’esterno, un like può indurre un picco di autostima, ma aspettarselo da fuori fa disimparare a rifornire da soli il nostro personale serbatoio di autostima, un dislike può bloccarci, demotivarci, prosciugare le nostre scorte di creatività e spinta a fare arte. Può anche condurre ad abbandonare il percorso.
Credo di averlo detto più volte sui social, un like non è affatto un’attestazione di gradimento, molti like vengono dati anche solo per affetto nei nostri confronti da persone che ci apprezzano per altri motivi, o anche come spunta ‘visto’.
A tutti noi fa piacere ricevere attenzione, ma non è per quello che dovremmo fare arte, siamo sinceri, non dovremmo essere rimasti al guardami mamma, a motivarci dovrebbe invece essere per il piacere di fare arte, in sé, in purezza, sommato al piacere di dire qualcosa che ci racconta, che racconta la nostra visione, che ci permette di mettere in forma concreta qualcosa che si muove dentro.
Un diario per immagini, persino quando crediamo di non star raccontando nulla di noi stessi.
Dunque cerchiamo di ritrovare il bambino che è in noi, e fare arte “come se”… cercare il piacere, cercare di soddisfare noi stessi in primis, la nostra curiosità, il nostro desiderio di fare quel qualcosa che stavamo cercando e che non troviamo in alcun altro posto che dentro di noi… citando un brano di Edoardo Bennato, “poi la strada la trovi da te, porta all’isola che non c’è“, il tutto senza tenere costantemente le antenne sintonizzate su “altri” che ci dovrebbero riconoscere, premiare, dare like, invitare a esporre.
I riconoscimenti esterni se capitano è bene, se non capitano è comunque bene perché fare arte dovrebbe essere al centro del nostro agire, tutto il resto è contorno.
Le nostre scelte hanno sempre dei costi nascosti, affidare se stessi solo al giudizio altrui depotenzia la propria ricerca e devia dal percorso, assumersi la responsabilità della propria autostima e delle proprie scelte comporta anche accettare la possibilità di sbagliare inciamparsi e non piacere ad altri.
In pratica, nulla più e nulla meno dell’ordinaria amministrazione del vivere quotidiano no?
Non si cada nell’autoinganno che ci fa credere che chi è diventato ‘famoso‘ non abbia avuto questi stessi grattacapi.
Van Gogh soffriva in modo indicibile del non essere riconosciuto, basta scorrere i suoi bellissimi e intensi epistolari con il fratello Theo per rendersene conto, era incapace di riconoscersi valore se non specchiandosi nello sguardo del mondo intorno a sé.
Il riconoscimento dell’autore delle opere, e del loro significato era per Vincent il fulcro del suo fare arte.
Munch per contro era totalmente asservito alla propria ricerca, pure lui gravato da una vita di sofferenza psichica, tuttavia riconosceva all’arte il ruolo primario nella sua ricerca, i giudizi, spesso duri e sprezzanti, dei suoi contemporanei lo lasciavano indifferente.
Era intimamente convinto (lo si evince dai suoi scritti) che le opere avessero vita propria, che una volta realizzate dovessero andare per il mondo e che non fossero un mero metro del giudizio del loro autore.
Appendeva molti dei suoi quadri agli alberi nel bosco che circondava la sua casa e li lasciava a lungo esposti alle intemperie affinché ‘facessero esperienza del mondo‘.
Il quadro, il lavoro, la ricerca creativa erano per lui il cuore del suo essere artista, bastante a sé stesso.
Non posso affermare con certezza che questa seconda via sia stata ciò che ha permesso a Munch di sopravvivere al proprio strazio psichico, rispetto alla scelta di Van Gogh, ma potrebbe essere una via interpretativa.
sintografia mia, titolo “inner vision“