Creatività o riconoscibilità?
Creatività vs riconoscibilità. L’arte dell’equilibrista.
Questo è un punto critico contro cui vanno a sbattere più o meno tutti gli artisti che cercano una propria dimensione espressiva prima o poi.
Negli anni sono arrivata a vedere le due cose come i due estremi di un’asse.
Tanto più è alta la creatività tanto più si tende ad essere versatili, esplorativi, avventurosi, poliedrici, multidisciplinari, si va a pescare in un tesoro ampio e ricchissimo, si contaminano ambiti diversi, ci si nutre di una multidimensionalità che amplia la visione.
Immagino che chiunque tra noi trovi questa condizione desiderabile, ma c’è un ma pesante: all’estremo dell’asse c’è la riconoscibilità, la coerenza tematica e stilistica, quella cosa che fa sì che un Klimt non lo puoi sbagliare con un Van Gogh e viceversa, e che ti fa percorrere il suo arco di vita artistico e osservare una lenta coerente evoluzione che assomiglia più a un affinare la voce che a un esplorare.
Purtroppo, spiace dirlo, ma Picasso a parte (un’autentica eccezione nella storia dell’arte), la riconoscibilità è quella cosa che sembra produrre un seguito di appassionati fedeli.
Fedeli ma dispotici.
Lo si può notare anche nella musica: appena un cantante o una band cambiano stile scatta una ribellione di massa, viene vissuto come un tradimento.
Ecco quindi che l’artista poliedrico si ritrova a chiedersi se rinunciare alla sua folle libertà creativa per ‘essere amato’, mentre l’artista monotematico, forte della sua coerenza prospera ma ne è anche prigioniero.
Ricerca o consenso? Alla fine la domanda è questa.
La risposta come sempre probabilmente si situa in mezzo a quell’asse, e come un equilibrista l’artista deve saper camminare sospeso sul filo.
p.s. a destra nella foto di copertina un dettaglio di un autoritratto di Egon Schiele
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