Tu chiamale se vuoi emozioni… arte-fatte.
Avevo promesso un articolo su AI, emozioni e sentimenti quindi pur infrattata tra un appello e l’altro all’università (ne ho due la prossima settimana) provo a mantenere la promessa fatta.
Parto, come spesso accade dalla critica “Eh, ma come fa una macchina, e l’intelligenza artificiale è una macchina, a mettere emozioni nelle cose che produce?”
Una matita ci riesce se dietro c’è quella singola persona che la utilizza e che ha la capacità di comunicare emozioni (e se lo desidera comunicare emozioni) attraverso l’uso dello strumento, perché non dovrebbe farlo uno strumento tecnologico che è stato allenato con miliardi, lo ripeto MILIARDI, di materiale prodotto dall’intera umanità?
Aggiungo che oltre ai miliardi di immagini che hanno nutrito ad esempio Stable Diffusion (l’AI che utilizzo io) c’è anche la singola persona, l’utilizzatore, anzi utilizzatrice nel mio caso, che mentre lavora con la AI dispiega tutto il suo arsenale di emozioni proprie, di conoscenze proprie, di competenze relazionali proprie, e che, a sua volta, è stata nutrita con film, libri, musica, lezioni, relazioni, ore sul web, telegiornali, fumetti, viaggi, mostre d’arte concerti ecc. e anche tutte queste cose contengono miliardi di riferimenti provenienti da praticamente tutto il mondo.
Alla luce di questi ragionamenti a me sembra più difficile produrre cose senza ‘umano’ dentro, che con ‘umano’ dentro ne converrai con me.
Ma l’umano è solo vincolato alle ‘emozioni’? Il tema delle emozioni nell’arte è da un bel po’ mi sta a cuore, ma se mi permetti ci arrivo un po’ alla volta, perché qui si apre una riflessione importante, e non voglio perdere per strada qualche dettaglio significativo, magari nella fretta. Perciò seguimi, sarò comunque breve, ma cercherò di non essere superficiale.
I social sono uno strumento tanto vituperato, ma tanto prezioso.
Si, hanno i loro innegabili lati oscuri, saranno capitati anche a te alcuni stalker, bulletti da tastiera, risse inspiegabili con parenti con cui prima dei social andavi d’amore e d’accordo, ma un giorno sotto un tuo post hanno scatenato un putiferio senza una apparente ragione.
Però per noi artisti sono un osservatorio preziosissimo, ci permettono di entrare in contatto diretto con chi vede i nostri lavori (che li apprezzi o meno è relativamente importante), ci permettono di conoscere in modo lineare, diretto, senza mediatori, come vedono l’arte le persone che non fanno arte, come vedono gli artisti, ed anche come gli artisti vedono l’arte e le persone che si interessano, senza praticarla, di arte.
Ciò che emerge perlopiù è una prevedibile serie di luoghi comuni, l’artista maledetto (alcuni colleghi ci marciano), l’artista genio e sregolatezza, questo lo facevo anch’io, il mercato è cattivo, con l’arte non si mangia, l’arte è arte solo se “emoziona” e tanta altra roba. Tuttavia mi soffermo sull’ultima che è oggetto del post.
L’arte è solo arte se “emoziona o se contiene emozioni?”
Stavolta non rispondo io ma lo lascio fare ad Alfonso Berardinelli che sulle pagine de l’Avvenire il 6 novembre 2020 lo ha scritto molto meglio di come avrei potuto fare io:
“Le arti sono riflessioni sia nel senso che riflettono la realtà sia nel senso che permettono e favoriscono la riflessione. Ma accade oggi che si fugga dalla riflessione e si vogliano solo emozioni forti. Anche se sembra il contrario, questo è il segno di un declino e di un ottundimento della sensibilità. Si crede di essere più sensibili e soltanto sensibili, mentre in realtà lo si è meno. Si vuole un’arte che enfatizzi, acuizzi la finta esperienza fisica di ciò di cui non abbiamo esperienza.”
Deflagrante la sua conclusione!
Ma non mi stupisce, è proprio ciò che da un po’ di tempo a questa parte sto percependo, viviamo un allontanamento graduale ma inesorabile dalle emozioni spontanee, nostre, proprie, e scivoliamo verso un senso di “ottundimento” per riprendere il termine usato da Berardinelli.
Riusciamo a guardare telegiornali che ci mostrano conflitti sanguinosi ad un passo dal nostro paese, mentre ci mangiamo gli spaghetti al sugo, senza un particolare sussulto. Clicchiamo un condividi su qualche atrocità e poi con la proverbiale memoria da pesce rosso andiamo a guardare gattini danzanti. Alla fine chiediamo al cinema, alla tv, alla musica, all’arte di farsi veicolo, portatore, droga sintetica, per recuperare un simulacro di quelle emozioni che abbiamo perduto senza renderci conto.
L’arte in questo diventa il ritratto di Dorian Gray che vorremmo contenesse tutti gli orrori che non vogliamo afferrare, in un diniego (e qui lo uso proprio nella sua accezione psicologica di disconoscimento di una percezione) anestetizzante, però poi come una oscura creatura divorante, un buco nero senza ritorno, al contempo quella voragine imprigiona anche le migliori emozioni che avremmo voluto tenere con noi, eravamo distratti mentre ci sono scivolate via, e ora potremmo scoprirle perdute come le lacrime nella pioggia del replicante interpretato da Rutger Hauer.
Ma l’arte è comunicazione, e fonte di riflessione per sua natura, e qui la stiamo onorando riflettendo insieme sul suo senso e non invece facendoci inebriare da emozioni di riflesso a buon prezzo, e quindi no, non la si può costringere all’angusto recinto del contenitore di emozioni da luna park. Proprio no. Io non lo voglio, l’arte non lo vuole.
Diamo a Cesare quel che è di Cesare, diamo all’Arte la libertà di essere tutto ciò che vuole essere, non il cestino dei nostri sentimenti repressi, non la cloaca del nostro male messo fuori, e neppure la rassicurante cestina coi gomitoli di buoni sentimenti da intrecciare in modo grazioso, sufficientemente artefatto da non perturbarci troppo.
A ben pensarci forse qualche volta anche tutto ciò troverà il suo posto, ma non in via esclusiva e obbligata, riprendiamo su di noi il nostro personale male oscuro, e insieme ad esso la nostra spontaneità, l’arte farà il suo corso intanto, malgrado noi.
Malgrado tutto.